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Certo, la cucina italiana è la migliore, ma vogliamo parlare della qualità di ciò che si gusta a Tokyo? Nella capitale giapponese si mangia ovunque molto più che dignitosamente, sia che ci si trovi in un izakaya (un tipico ristorante giapponese) o s’incappi lungo la strada in un chiosco di sushi.
Il Dio del Sol Levante fa in modo che il cibo sia la ricompensa che spetta all’impiegato sopravvissuto ai profondi gangli della metropolitana di Tokyo e a un estenuante giorno d’inchini. I soba e i ramen sono la cosa più vicina agli spaghetti che si possa incontrare in Giappone, ma sono immersi nel brodo e, all’inizio almeno, chi è cresciuto con bigoli cacio e pepe ha molte ritrosie, anche se, svestendosi del consueto campanilismo culinario, non può far altro che apprezzarli. Li apprezza così tanto che dopo un po’ tende persino a sorvolare su certi sapori ed è allora che, inaspettatamente, riappare il Dio italiano.
Il connazionale giapponesizzato scende come sempre a Sengawa, la decima fermata della Keio Line, e prima di tornare all’appartamento s’appresta a entrare nel consueto localino per un bicchiere di bianco frizzante. Il Dio italiano assume allora le mentite spoglie d’un collega pendolare che ogni giorno, come lui, torna in metropolitana da Shinjuku.
“Ohayoo. Ho sentito che hanno aperto un nuovo izakaya vicino a Matzuya. C’andiamo?”. “Perché no?”
Il proprietario dopo aver servito i due calici agli amici, si ritira di due passi e torna al banco-cucina per continuare ciò che stava facendo: un trito di cipolla con una bazzecola d’aglio. L’occhio italiano del cliente cade, suo malgrado, sui consueti gesti dell’infanzia. A fianco del tagliere c’è un vaso trasparente quasi pieno di qualcosa che il connazionale sa per certo essere passata di pomodoro e sul fuoco allegro c’è una pentola che non può essere che riempita d’acqua messa a bollire. Osserva tutto come quando seguiva trasognato i gesti del sacerdote alle prime esperienze da chierichetto.
Il sugo rosso che cuoce lentamente, il sale nell’acqua bollente, la foglia di basilico che l’oste toglie da una piantina nascosta in fondo alla cucina e la pasta contenuta in una confezione gialla, la cui marca può essere letta correttamente solo da un italiano. Quattro cose che fanno scaturire l’antico sortilegio, perciò si rivolge al proprietario dell’izakaya come il conoscente non fosse lì accanto:
“Sumimasen! Vorrei anch’io un piatto di pasta. Sumimasen!”.
Non c’è dubbio: l’occhiata del cliente è una sfida e il cuoco, con umiltà, ma con la decisione del samurai, accetta il gioco e s’adopera con la consueta passione, anche se nel momento in cui l’avventore porta alla bocca gli spaghetti magistralmente arrotolati sulla forchetta, una sottile tensione lo pervade perché ora è netta l’arditezza della prova. Gustati due bocconi, l’italiano sotto mentite spoglie osserva serio l’interlocutore e scandisce davanti a tutti:
“Yokatta! Ottimo lavoro. Bravo. Come mangiarla a casa. In Italia”.
Il cuoco sorride, s’inchina e, tra sé e sé, ringrazia Dio. Il Dio giapponese, è ovvio.
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