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Fin da bambino ognuno cresce con un piccolo sogno. I sogni sono diversi, persino innumerevoli, e hanno anche dei “sotto-sogni”. Qui e oggi, nei racconti del Viaggiator Pastaio ci occupiamo di chi è cresciuto con le suggestioni – musicali o cinematografiche – dell’America, che non identifica tutto il continente (o due, se si considera come una separazione l’Istmo di Panama), ma solamente gli Incommensurabili Stati Uniti d’America.
A loro volta i panorami americani hanno, appunto, dei “sotto-sogni”: c’è chi ama i deserti del Sud Ovest, la California in senso lato, fin su a Seattle, chi ama le città della East Coast. I più anacronistici e strani però sono quelli che amano alla follia il Grande Umido del Sud degli States: il lago di sudore asciugato dai condizionatori dell’Alabama, della Louisiana e del Mississippi. Laggiù ci vanno solo i fanatici della musica nera e di Elvis: quelli che desiderano vedere dal vero la “Proud Mary”, il battello a ruote dei Credence Clearwater Revival.
Chi affronta il viaggio nel Sud del Sud impara subito due cose. Una, in realtà, già la conosce: ed è che la spina dorsale del Sud è la Highway 61, che parte dal Minnesota e finisce seguendo il corso del Mississippi a New Orleans, l’altra è che nel Sud degli Stati Uniti si mangia divinamente: gumbo, red beans and rice, crawfish etouffè.
Il cibo è davvero fantastico e gustoso, ma può accadere che nel cuore pulsante del profondo Sud e del blues, a Clarksdale nel Mississippi, cresca un improvviso e inaspettato desiderio serale: riavvicinarsi ai gusti della propria cucina benedetta. Accade perciò che, inaspettatamente, giusto lungo la Highway 61 compaia l’insegna di un ristorante libanese, che perduti laggiù appare essere, per il gusto, la cucina più vicina a quella italiana. Dubbioso, il connazionale oltrepassa la soglia e osserva l’ambiente: non c’è nulla che richiami il Bel Paese, perciò storce la bocca quando legge sul menù “penne alla bolognesa”, ma solo quello lo illude un poco, perché gli “spaghetti with mushrooms” sono davvero inimmaginabili.
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“Penne alla bolognesa“, ghigna. Dopo poco i piatti arrivano e il connazionale li guarda stupito: gli spaghetti sembrano saldi e al dente, e il sugo non pare un arcipelago del Pacifico.
Assaggia e… SONO BUONI! Gli occhi gli scintillano. Quando chiede il conto fa i complimenti e il cameriere lo squadra: “Italiano?”.
“Oh yeah!”.
“Lascia stare l’inglese, anch’io sono italiano e pure il cuoco”.
“E cosa accidenti ci fate sperduti quaggiù?”.
“Siam venuti qui giù per il tuo stesso motivo – la musica – e non ce l’abbiamo più fatta a tornare indietro. Stare qua ci piaceva troppo e così abbiamo rilevato ‘stò ristorante libanese, ma la pasta la facciamo come diciamo noi: all’italiana, e chissà come mai, chissà per quale motivo, un quattro o cinque italiani al mese vengono a mangiare qua. Secondo me è il richiamo irresistibile che sentiamo solo noi della pasta fatta bene!”.
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