Alcuni sostengono che in Messico non ci sia posto più bello di Guanajuato. La città infonde tranquillità al viaggiatore europeo, perché ha il fascino di restituire scorci del continente da cui si è partiti: è infatti null’altro che una città spagnola costruita aldilà dell’Oceano.
Passeggiare per le vie del centro dà persino l’idea d’essere nel Sud della Francia o in Centro Italia per via degli acciottolati e delle pietre degli edifici, o, perché no, in qualche paese di mare per le facciate multicolori delle case. Anche il clima è identico a quello spagnolo e d’estate il caldo è spietato perciò si cerca riparo nei famosi sotterranei della città, oppure sotto i pergolati e le tende dei locali di Plaza de La Paz. Soprattutto là, dove si mangia, si danno volontario o involontario appuntamento i turisti che la popolano.
Allora è bello guardarsi intorno e indovinare le nazionalità: americani, tedeschi, inglesi e, naturalmente, italiani.
C’è un modo infallibile per riconoscere gli italiani, anche se camuffati: basta recarsi a mezzogiorno in piazza e sedersi al tavolo d’uno dei ristoranti. I non italiani amano ordinare gli spaghetti perché danno un ulteriore tocco d’esotismo alla vacanza; gli italiani, invece, s’avvicinano alla pasta solo perché esasperati dalle spigolosità dei sapori della cucina messicana che passa in un batter d’occhio dal piccantissimo al dolcissimo: dal chiles relennos al mole col pollo.
È in quel frangente che emerge l’italianità. I discutibili spaghetti con parmezan cheese e bolognesa sauce escono dalla cucina più o meno nello stesso istante e si sottomettono all’appetito degli avventori. Tedeschi, americani, giapponesi guardano con circospezione i piatti e iniziano ad armeggiare con le forchetta per condurli alla bocca. Di tanto in tanto si guardano di sottecchi per cercare di carpire i segreti del corretto uso della forchetta, del cucchiaio e persino del coltello, ma non ottengono grandi exploits.
Immancabilmente al loro fianco siede un italiano che, sfinito da dieci giorni di chile e guacamole, si lancia come un ossesso sugli spaghetti, quasi fosse a casa sua e avesse di fronte i bigoli nobili di Sgambaro irrorati da un ragù di carne lasciato andare due ore a fuoco impercettibile.
Le dita e la forchetta vorticano a una velocità impressionante e in non più di tre minuti e mezzo il piatto è completamente vuoto. I tedeschi, gli americani e i giapponesi sono desolatamente ancora al terzo boccone e guardano l’italiano satollo e sorridente. Allora si riempiono d’un’invidia che fa passar loro l’appetito. Perché anche nella degustazione, oltre che nella produzione, esiste innata l’Arte della Pasta.
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