La prima volta che mi trovai a dover fotografare un oggetto fu abbastanza tragico. Avevo solo un semplice fondale di carta, una luce artificiale montata su un pesantissimo cavalletto per colpa del quale quasi persi un dito, e l’oggetto in questione. Mi sembrò tremendamente difficile, ma capii subito che trovare l’illuminazione giusta era la cosa più importante di tutte, anche più del soggetto stesso.
La luce poteva trasformare le cose, anche quelle banali, in qualcosa di diverso; c’era magia, ed era tutta lì, in quella stanza e quelle poche cose. Mi sembrò una cosa per cui valesse la pena indagare.
Ero a scuola, al biennio di fotografia che decisi di fare spinta da una sorta di irrefrenabile idea romantica circa tutti quei grandi artisti fotografi che avevano definitivamente cambiato il mio modo di guardare le cose.
Ancora non sapevo quale fosse la mia storia da raccontare, né avevo idea che un giorno neanche troppo lontano, fotografare still life sarebbe diventato un lavoro e una passione che avrebbe influenzato completamente il mio modo di essere. Non sapevo ancora che le mie giornate passate sui set avrebbero cambiato la mia vita quotidiana, trasformandola in un’indagine e ricerca continua del bello.
La mia natura e il mio approccio nei confronti della fotografia mi ha sempre portata a prediligere la messa in scena allestita, dove sono io a costruire la mia immagine nella sua interezza, agendo un po’ su tutto (contenuto-composizione-luce), piuttosto che ricercare nelle realtà che mi circonda lo scatto giusto.
Quando allestisco un set posso rendere reale ciò che avevo solo immaginato, ho l’illusione di creare un piccolo mondo e di avere il potere esclusivo di scegliere come voglio che sia.
In questo mondo ritrovo tutte le cose che mi hanno formata, come fotografa e come persona.
Ritrovo gli artisti che mi hanno ispirata, il chiaroscuro delle tele dei grandi Maestri, la storia della mia famiglia, i miei ricordi e le mie fantasie, anche attraverso “i props” – gli oggetti che uso per allestire – e che a volte arrivano da tempi e luoghi lontani.
La bellezza effimera delle cose semplici e quotidiane, di cui il cibo certamente riveste un ruolo importante, per me sono un pretesto di indagine visiva e interiore. Il cibo è sostentamento certo, ma è anche cultura e ci rappresenta più di quanto possiamo immaginare.
Cerco di indagare questi aspetti in una chiave contemporanea, che possa essere legata a questo tempo e anche al mio di tempo, quello più intimo in cui potersi chiudere nel silenzio di una stanza buia, guardando la luce che si posa sulle cose ed esplorando la poesia dell’impermanenza.
Articolo a cura di Zaira Zarotti – @thefreakytable
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